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Ne è passata di gente...

Di Aldo Bello

Il giro del mondo in 80 opere

Essendo leccese, Tonino non poteva che abitare in una zona a modo suo spagnolesca: in via di Montoro, nelle vicinanze di una chiesa che appartiene, appunto, ai monaci madrileni. Ed essendo pervicacemente laico, non poteva che avere a due passi la statua di Giordano Bruno, sorta sul luogo del rogo con cui di tentò inutilmente di incenerire la Ragione e il Dubbio che erano I punti cardinali del futuro.

Un porto di mare, quelle mura affrescate dei due piani di via di Montoro. Spesso Tonino vi rientrava notte inoltrata, nel buio  della gran camera alta, che era studio, camera da pranzo e da letto, e riparo di chierici vaganti d’ogni tipo, spiccava- no gli occhi di gatti bucanieri dai nomi feroci e intriganti (Nerone, Attila, Messalina…), uniche guide tra i materassini, i sacchi a pelo, gli zaini e i corpi di chi dormiva alla grande e, se urtato per caso, rimproverava infastidito chi osava muoversi alla cieca in quell’ora.

Più che il padrone della tua casa — gli dicevo — sembri l’ospite di te stesso, o addirittura un intruso, visto che c’è anche chi non ti conosce.

Ci capitavano artisti di vari e vaghi mestieri, attori in cerca d’ingaggio, registi ricchi di risorse sperimentali, pittori girovaghi, narratori di gran vena, poeti militanti, millantatori e spiriti nomadi. Per i quali ogni mattina, convocato d’urgenza, sopraggiungeva il garzone di un bar vicino, piegato in due da un vassoio oceanico, carico di cappuccini e cornetti ordinati in virtù di un conto aperto da chissà chi, che Tonino doveva saldare prima che tracimasse: allora portava al barista un dipinto, aboliva il debito e si faceva dare persino il resto.

Questo era il rito ricorrente del mestiere di vivere in quel tempo e in quel rifugio per bucanieri, polo magnetico che attraeva quant’altri mai, e non solo stelle più o meno cadenti, ma anche astri di prima grandezza.

Qui, infatti, veniva Carmelo Bene, a farsi creare da Tonino le locandine per tutte quante le sue opere teatrali, e a far prove, e a saggiare vocazioni e talenti, e ad equilibrare musica di parole ed echi ondulari; qui veniva Franco Cuomo, che aveva sostituito il giornalismo col teatro, e che in seguito avrebbe cercato ispirazione per ricostruire una temperie medievale dalla quale far riemergere le avventure dei suoi cavalieri della Tavola Rotonda e la lunga storia di Carlo Magno. Qui nascevano le ultime tele romane spatolate e le idee per le opere future del Van Gogh salentino, Edoardo De Candia, poi declinato verso Lecce, a morire in solitudine…

La comprò un giornalista del Corriere della Sera, la casa affrescata di via di Montoro.

Allora Tonino dovette trasferirsi altrove, dalle parti dell’Eur, grandi spazi lindi e pettinati, quartiere di vite prevedibili, riva prosaica di un fiume sul quale — spenta ogni fantasia — non navigava alcun bateau ivre. Che fu riavvistato dopo, quando nuovo porto-rifugio fu l’immensa casa-studio dalle parti del dismesso Mattatoio romano, oltre Porta Portese, su un pianoro laterale tiberino con trattorie vocianti, cucina romanesca e bianco dei Castelli. Non più accampamenti notturni, scalo aperto soltanto agli amici, ai galleristi, ai critici d’arte. Che diventarono “fantasmi” quando Tonino decise di levar le tende un’altra volta, spostandosi nell’area agreste della mitica Orte, terra fertile, adatta agli ulivi, agli ortaggi e ai fiori.

– Sì, mi confermò in un primo pomeriggio dal sole sghembo. Fantasmi, ma sempre presenti. Perché sono radicati in me, fanno parte di me. E poi, mi cercano. O se vogliamo proprio, ci cerchiamo reciprocamente. Mi sposto, cambio territorio, è vero. Ma tutto riappare e tutti ritornano, intatti, immutati. La geografia dei miei porti sepolti è come Lecce, così com’era. Lecce autentica ormai è solo di fronte a Santa Croce, dietro la casa di D’Amelio, il vecchio poeta leccese, oppure nelle giravolte, da via dei Tribunali in su; e alle spalle del Duomo. Una volta era tutto così. La vera Lecce era così. Piazza Sant’Oronzo, con i caffè dell’Ottocento: il Buda, il Giancane, poi l’Alvino… Fior di liberty, marmo e ferro battuto, stucchi e disegni alle pareti. Mentre andavo via, per il mondo, pezzi del mio cuore si sfarinavano. Quella Lecce aveva fatto parte della mia vita, e della vita di Bodini, di Pagano, di Bene, di tanti grandi pittori, uomini di teatro, giornalisti, umoristi, professori universitari… Ne è passata di gente: sono scivolate toghe e accademie, chimiche e cibernetiche; son transitati barbieri-cerusici, cartapestai, figuli, e scultori, pittori, poeti, narratori, critici; e faccendieri, comizianti, guitti, scalatori sociali, imbonitori, girella; e tanti altri, che a nominarli tutti ci vorrebbe una quantità di tempo. E’ la mia Lecce classica, nostalgica, se si vuole, ma di una nostalgia da vecchi hidalghi che non ha mai fatto male a nessuno, perché è amore per le cose e per le memorie buone e genuine, che mi tengono compagnia quando sento il morso del deserto e del silenzio –

Splendidi, suadenti i suoi fantasmi. E tentacolari. Con i languori mediterranei trasferiti fra i dossi che preannunciano maremme e creste rocciose che in Salento tutt’al più si sognano. Con la forza però, che trasfigura i caratteri più duri. Diceva: – Tancredi il Normanno in Puglia scopre l’amore. Corre dietro a mille donne, ma per una sola è rinchiuso in una cella sotterranea dalla quale è salvato dalla Madonna te lu Cerru, la Madonna del Cervo, a Santa Maria a Cerrate. E non a caso Torquato Tasso, nella Gerusalemme, narra una sola, splendida storia d’amore: quel la, appunto, del Conte di Lecce.

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Poco fa mi ha preannunciato che salperà un’altra volta le ancore, diretto verso un nuovo porto. Lascerà il casale georgico. Rientrerà all’ombra del Cupolone. E chissà che – finalmente – non decida di disegnare quelle benedette (è il caso di dire) quattordici Stazioni, più una per il Trionfo di Cristo, di una Via Crucis progettata per arricchire la chiesetta del mio buen retiro salentino appena una trentina di anni fa.

Io continuo a sperarlo, amico mio, prima che ci freghi l’astuta ironia dei nostri fantasmi.

Aldo Bello